Leadership al femminile e
motivazione nello sport e in azienda
La nostra forza è stata quella di non essere mai uguali a noi stesse
Lilli Allucci – ex capitano Settrosa Campionessa Olimpica Atene 2004
Leadership e motivazione sono tra i temi più gettonati in azienda. Per questa ragione invitano sportivi come testimonial per workshop interni. Cercano di scoprire similitudini tra sport e business con le quali confrontarsi e apprendere strategie efficaci. Workshop orientati in prevalenza al manager interessato a capire i meccanismi per motivare i propri collaboratori e creare un team performante.
In una società dove un’invenzione oggi e già obsoleta domani, mettiamo un attimo da parte le competenze tecniche. Esiste l’esigenza concreta di integrarle con nuove competenze trasversali come: intelligenza emotiva, capacità collaborative e di comunicazione, o abilità a negoziare. Solo per citarne alcune.
In un recente articolo del Sole 24 ore (clicca qui per l’articolo) ne sono state individuate ben dieci utili sia nel business sia nello sport. Occorre innovare e alle volte non è detto sia la tecnologia la scelta giusta.
NOTA: Da questo momento per comodità nel confronto tra sport e azienda, il termine manager sarà riferito a quest’ultima che nello sport è rappresentato dall’allenatore, mentre con il termine collaboratori farò riferimento agli atleti.
LO SPORT COME METAFORA IN AZIENDA
Tanti sono gli sportivi nel mondo aziendale chiamati a raccontare le loro storie. Il più gettonato è l’ex allenatore di pallavolo Julio Velasco che ogni anno a Milano tiene un workshop sulla leadership. Anche se conosci a memoria tutti i suoi video, almeno una volta nella vita, ascoltare dal vivo le perle di saggezza di questo grande uomo di sport, è davvero emozionante. Infatti, essendo da sempre tra i personaggi sportivi a cui mi ispiro, me lo sono già regalato due volte :-)!
Amo la semplicità con la quale spiega concetti in apparenza complessi. Come quando parla del “Giusto premio per il raggiungimento dell’obiettivo”, riferendosi all’obiettivo dell’atleta paragonato a quello posto ai collaboratori dai propri manager.
Se a un corridore viene detto di raggiungere i 50 km e ci riesce, si deve fermare e celebrare. Anche se ha ancora benzina in corpo per proseguire. Rappresenta una questione mentale fermarsi e festeggiare. Andare oltre in quel momento non serve a niente. Dopo verrà fissato un nuovo obiettivo e si riparte.
Invece in azienda si pratica spesso lo “sport”: se hai raggiunto l’obiettivo, lo stesso giorno te lo sposto più avanti. 🙂 E così via. Nel nostro esempio è come se al corridore si chiedesse, una volta raggiunto i 50 km concordati, di correrne altre dieci. Non funziona. Non ha celebrato. Non si è gustato la vittoria. Il rischio qual è? Prima di tutto l’incoerenza tra ciò che l’allenatore/manager ha assegnato e l’ulteriore richiesta. Poi se non dovesse riuscire a raggiungere la meta, la sensazione di non essere stato capace. Anche se fosse possibile, in ogni caso, la frustrazione di non essere mai abbastanza, perché non si è festeggiato il successo, prende il sopravvento.
Poiché mi piace attingere da persone diverse, non mi soffermo solo a Julio Velasco. Cerco sempre il confronto con altri campioni perché esiste sempre un punto di vista, una sfumatura, un dettaglio detto in modo diverso utile alla mia ricerca del miglioramento continuo.
Pertanto oggi ho scelto di condividere con te l’intervista a una grande olimpionica della nazionale italiana di pallanuoto, nota con il nome di Setterosa, leggenda dello sport italiano: Lilli Allucci.
Ex capitano storico di una squadra che in soli dieci anni ha vinto tutto ( 4 titoli europei, 2 titoli mondiali e un oro olimpico) cancellando il famoso motto di Pierre De Coubertin, “L’importante è partecipare” dal proprio vocabolario :-)! Napoletana di nascita, Lilli Allucci vive con la famiglia a Palermo dove ha giocato per tanti anni ed esercita la professione di psicoterapeuta e psicologa dello sport.
Grazie ai suoi recenti interventi presso importanti multinazionali ho avuto l’occasione per sviscerare temi come leadership, motivazione e lavoro di squadra, mettendoli a confronto con il contesto aziendale. Ho lavorato in una multinazionale per 17 anni ed è stato interessante unire l’esperienza aziendale e sportiva con il racconto dell’ex pallanuotista per incastrare tutti i pezzi del puzzle.
Proprio dalla mia esperienza, dai numerosi workshop frequentati e dai libri letti su questi temi, ho potuto constatare come in prevalenza viene sempre presa in considerazione la leadership partendo dall’alto. Cioè dal manager (azienda)/allenatore (sport) nei confronti dei sui collaboratori (azienda)/atleti (sport) e l’annosa questione di come motivarli.
Invece questo racconto ti porterà all’interno del gruppo evidenziando
il come funzionava la loro leadership e
la motivazione a prescindere da quella svolta dal loro allenatore.
Prima di addentrarci sugli argomenti, occorre fare una doverosa premessa sul Setterosa affinché possa esserti chiaro il contesto dal quale partiamo per collegare i temi tra sport e azienda.
IL CONTESTO: TREDICI LEADER E UN SOLO PALLONE
Una squadra composta da tredici tigri agguerrite e ahimè un solo pallone. Mica facile gestirle. Giustamente nessuna voleva restare in panchina. Fuori dalla piscina mostravano occhi gentili e temperamento tranquillo. Niente a che vedere con la trasformazione in acqua dove sfoderavano gli Occhi della Tigre diventato un marchio di fabbrica di questa squadra.
Per le Tigri d’Italia, così come venivano chiamate dai giornalisti, contava solo una cosa: vincere. A guidarle il commissario tecnico Pierluigi Formiconi grande stratega. Abile nel comprendere la tattica avversaria in pochi minuti, plasmando le atlete con una mentalità vincente.
È durato dieci anni il ciclo vincente dove l’Italia è stata la squadra da battere nonostante la differenza fisica. Già, perché le azzurre non sono state mai dei colossi e dovevano vedersela con australiane, americane, russe e ungheresi: veri e propri armadi a quattro stagioni. 🙂
Quindi gioco forza l’intelligenza agonistica è diventata l’arma vincente con cui battere le altre nazioni. In una squadra con donne dal forte temperamento ho compreso che Lilli Allucci era l’unica tra le azzurre in quel momento a poter ricoprire il ruolo delicato di capitano. Il motivo è semplice: l’ex azzurra con la calottina numero 3, annoverava tra i suoi punti di forza competenze comunicative e di mediazione indispensabili per placare animi competitivi come quelle delle azzurre.
Un leader di quelli che non hanno bisogno di esternare la loro leadership con gesti plateali. Al contrario. Un leader calmo. Riflessivo. Capace di reggere le inevitabili crisi in un periodo così lungo e in un contesto non facile come la pallanuoto per tradizione considerata solo al maschile. In questo non era però da sola. Ogni compagna contribuiva con la propria leadership a creare quell’alchimia necessaria a far funzionare le cose bene.
COME MANTENERE ALTA LA MOTIVAZIONE IN UN CICLO VINCENTE
In azienda la motivazione è fondamentale per ambire a grandi traguardi. Stessa cosa nello sport. Allora ci si chiede come sia possibile mantenerla alta. In special modo quando si è primi nel settore. Quando si ha un pacchetto clienti che da solo fornisce il necessario e si vive la sensazione di fermarsi. La stessa sensazione che nello sport vivono gli atleti appagati dai successi raggiunti smettendo di desiderare la vittoria.
A tal proposito l’ex capitano del Setterosa Lilli Allucci racconta:
«Non è vero che si è sempre vincenti. È facile elencare le vittorie e per questo Setterosa, riferite alle competizioni più importanti (Europei, Mondiali e Olimpiadi), sono state tante. Eppure ho taciuto le medaglie d’argento e di bronzo. Per carità sono sempre medaglie. Ma vogliono dire che non sei stato sempre al primo posto.
Se vuoi essere sempre il primo, ed è ciò che secondo me ha funzionato nella nostra squadra, devi sempre domandarti: cosa non è andato?Essere consapevole che sei la squadra da battere ti mette nella condizione di essere sempre attento. Come tu studi gli altri, anche loro studiano te. È un continuo inventare qualcosa per stupire l’altro.
Ad esempio noi siamo arrivate al punto in cui Pierluigi Formiconi si divertiva a farci cambiare la difesa in trenta secondi con tre schemi differenti. Quindi si cominciava in un modo e non appena le avversarie prendevano le contromisure, cambiavamo di nuovo.
C’era una ricerca continua per non lasciare che l’altro prendesse le misure su di noi. In pratica cercavamo di non essere mai uguali a noi stesse. Questo permetteva di vivere la sensazione gratificante di avere il controllo sul gioco. Di far fare all’altro quello che volevamo noi quando loro avevano la palla. (ndr citazione di Pierluigi Formiconi). Tutto questo nasceva dal fatto che eravamo costrette a confrontarci con dei gap, delle mancanze, rispetto agli altri paesi. Una su tutte il fisico. Noi italiane, tranne qualche eccezione, eravamo di corporatura più minuta, anche più basse rispetto alle nostre avversarie. In uno sport considerato il più fisico in assoluto questo costituiva un handicap iniziale non indifferente. Noi l’abbiamo compensato creando degli schemi di gioco inusuali. Mai visti».
Aggiungo che uno dei tanti punti di forza di questo Setterosa era proprio il gruppo compatto proiettato versa la stessa direzione. Lo stesso sogno: vincere le Olimpiadi. Di certo non sempre potevano andare tutte d’accordo ma sapevano che l’unico modo per realizzarlo era rispettarsi l’una con l’altra, il volersi bene e il non mettere mai in discussione l’obiettivo comune che aveva priorità su tutto. La squadra prevaleva sul singolo.
Penso sia un punto davvero difficile ma non impossibile da costruire in un team aziendale. Per ottenere un risultato occorre che ogni singolo componente condivida gli stessi valori. Se questi sono differenti se nel profondo ogni collaboratore/atleta ha un obiettivo completamente diverso da quello di squadra, vincere una volta è possibile. Il difficile è ripetersi nel tempo.
LA LEADERSHIP AL FEMMINILE
Leadership, leadership e ancora leadership. Se ne parla di continuo. Le aziende sono alla ricerca di persone con questa qualità diventata una rarità anche negli sport di squadra. Prima di proseguire il nostro confronto tra sport e azienda, è il caso di chiarire il concetto base di leadership.
- La competenza della leadership è per definizione attribuita a una persona che all’interno di un gruppo ricopre il ruolo di comando o direzione inteso come processo d’influenza sui membri per raggiungere uno scopo comune.
Il modello della leadership situazionale ideato nel 1969 da Kenneth Blanchart, consulente imprenditoriale e Paul Hersey scienziato comportamentale e imprenditore, si basa sul presupposto che il manager deve essere in grado di usare uno dei quattro stili di leadership previste dal modello (direttivo, persuasivo, partecipativo e delegante) in base alla situazione a cui deve far fronte.
In breve ecco la caratteristica di ogni tipologia:
- stile direttivo: il leader prende le decisioni e dice cosa fare
- stile persuasivo: il leader prendere le decisioni e coinvolge i collaboratori dando spiegazioni
- stile partecipativo: il leader basa la sua leadership sulle relazioni infondendo fiducia
- stile delegante: il leader delega limitandosi a verificare i risultati.
Modello applicabile anche nello sport con particolare riferimento alla leadership dell’allenatore che in un contesto aziendale è paragonabile al manager. In questo articolo però mi soffermerò ad analizzare la leadership all’interno del gruppo. Pertanto tornando al Setterosa è normale che in un ciclo durato dieci anni abbiano ruotato diverse atlete. Chiedo pertanto all’ex capitano quale tipo di leadership si era instaurata nel gruppo e se è rimasta invariata nel tempo. Ecco cosa racconta:
«Nel corso del tempo la leadership all’interno del Setterosa è cambiata evolvendosi in base all’evoluzione del gruppo stesso. Siamo passate da una leadership più direttiva dei primi tempi a una partecipativa dove preparavamo la partita tutte assieme.
La chiave di questo passaggio è stata la comunicazione, e come dice anche lo stesso Julio Velasco, quando non cerchi l’errore per colpevolizzare. Cerchi l’errore per trovare la soluzione.
In questo modo crei un clima di fiducia. Se in una determinata partita qualcuna di noi era in difficoltà con qualche avversaria, ci confrontavamo tutte e cercavamo di capire come ognuna avrebbe potuto aiutarla. Per farti un esempio pratico, quando prendevamo un goal non cercavamo il colpevole. La prima domanda che ci ponevamo era semplice: Perché abbiamo preso il goal?
Non c’è solo la responsabilità del portiere. Se l’avversario ha tirato, chi aveva il compito di marcarlo dov’era? Cosa stava facendo? E se era stato chiamato un particolare schema di difesa perché non ha funzionato e l’avversario è riuscito a tirare lo stesso?
Come ti spiegavo prima: trovare gli errori per trovare soluzioni.
Il che significava capire cosa non aveva funzionato non solo nell’ultimo passaggio, cioè la difesa e partivamo proprio dall’origine dell’azione. Ripercorrevamo a ritroso ogni singolo movimento. Nella pallanuoto il goal in contropiede nasce da una buona difesa. In sostanza devi vedere tutte le parti, difesa e attacco, come concatenate».
LA TRASPOSIZIONE IN AZIENDA
«Trasferendo tutto in un contesto aziendale credo che la difficoltà principale soprattutto se si tratta di una multinazionale, è far sentire squadra tutti i dipartimenti. Specialmente se sono dislocati in posti lontani. Quando questi lavorano a compartimenti stagni viene difficile ad esempio al reparto amministrativo percepire il successo raggiunto da quello delle vendite. È vero che ogni dipartimento ha un suo obiettivo. Alle volte il rischio è quello di creare competizione quando in realtà ogni singolo traguardo va visto nell’ottica di insieme del risultato finale.
Ogni componente deve avere chiaro come ha contribuito a ottenere questo risultato. Il che è collegato alla consapevolezza. Più sei consapevole di quello che fai tu e quello che fanno gli altri. Più sarai in grado di attribuire a ognuno il giusto merito per quello che ha fatto. Occorre tenere questo approccio perché hai sempre a che fare con persone e non con numeri.
Risulta indispensabile che tutte le persone si sentano riconosciute e partecipi al risultato».
LA COMPETIZIONE ALL’INTERNO DELL’AZIENDA È EFFICACE?
Il racconto dell’olimpionica Allucci mi permette di condividere un’esperienza e un episodio descritto da Julio Velasco.
Nella mia personale esperienza aziendale sia come dipendente di un’importante azienda multinazionale sia nel coaching aziendale, ho potuto notare come spesso si usi un approccio competitivo tra i dipartimenti pensando che la competizione sia lo strumento per essere produttivi.
A mio modo di vedere così si perde di vista l’obiettivo finale: il cliente. Infatti, nell’intervento di business coaching i manager di ogni dipartimento fino a quel momento non conoscevano realmente i problemi e le funzioni gli uni degli altri restando concentrati solo sul proprio processo. Con la metafora sportiva integrata da esercizi pratici hanno capito che il gioco di squadra adottato con un atteggiamento collaborativo funzionava.
Diversamente accade nello sport dove una sana competizione interna nel guadagnarsi il posto da titolare alimenta la motivazione personale a impegnarsi ancora di più. E sottolineo motivazione personale. Senza non c’è motivazione esterna che tenga.
L’episodio dell’ex allenatore argentino Julio Velasco legato al concetto di merito e di premio, invece risale ai tempi della sua esperienza come dirigente della Lazio, squadra di calcio di serie A1 vittoriosa in Coppa Uefa. Concetto che vale tanto in azienda quanto nello sport.
In pratica aveva proposto di festeggiare il successo consegnando a tutti i dipendenti un miniatura della coppa. Inutile a dirsi che l’idea fu accolta con stupore e non compresa. Per quale oscura ragione una segretaria dell’amministrazione o il custode del campo, o gli addetti alle pulizie degli spogliatoi, avrebbero dovuto ricevere un tale premio?
Julio Velasco ha dovuto lottare affinché con quel semplice gesto venisse riconosciuto a tutti il merito di aver contribuito con il proprio lavoro al successo in campo della squadra. E stiamo parlando di un personaggio già affermato e riconosciuto.
Essere squadra non riguarda solo giocatori, staff e dirigenza. Se i giocatori non avessero avuto spogliatoi puliti, persone addette all’organizzazione delle trasferte o a soddisfare ogni tipo di esigenza, non sarebbero stati messi nelle migliori condizioni per allenarsi bene. Tutto è stato utile per vincere insieme.
COME GESTIRE I NUOVI INGRESSI
Una volta formato un gruppo vincente, il ricambio è inevitabile per un ciclo così lungo. Lilli Allucci spiega come sia difficile ogni volta inserire un elemento nuovo: sia per chi entra sia per il gruppo e aggiunge:
«Occorre però sottolineare che non si può prescindere dalla novità. Il nuovo che entra è anche colui che rimette tutto sempre in discussione. Colui che porta la doppia anima. Rappresenta il cambiamento e quindi la paura possa modificare gli equilibri creando instabilità. Allo stesso tempo porta nuova energia e nuove idee necessarie per continuare la ricerca al miglioramento continuo».
COME GIRARE IN POSITIVO L’EVENTO NEGATIVO
In un percorso verso la l’obiettivo è normale incrociare eventi positivi e negativi. Più l’atleta diventa abile nella capacità di trasformare con rapidità eventi negativi in nuove opportunità, più riduce il tempo con il quale risolve i problemi.
Lilli hai detto all’inizio come il gap fisico rappresentasse per voi un aspetto negativo in uno sport dove la forza fisica è fondamentale. Come siete riuscite a colmare questa differenza?
«Porto sempre l’esempio del nostro centro boa Giusi Malato (ndr per fare un paragone con il calcio è come parlare di Diego Armando Maradona). Era la più forte al mondo nel suo ruolo. Pertanto la strategia delle avversarie consisteva nel farla stancare il più possibile con una marcatura asfissiante portata da una giocatrice più veloce di lei per avviare poi il contropiede con facilità. Questo perché nella pallanuoto tutti i componenti di ambe due le squadre, sette per ciascuno, attaccano e difendono. Quindi anche la mia compagna doveva rientrare per marcare un’avversaria e faticando sprecava tante energie.
Per noi rappresentava uno svantaggio. Significava consentire alle avversarie di attaccare con un uomo in più. Cosa abbiamo fatto?
Per prima cosa abbiamo accettato la situazione, cioè subire l’uomo in meno seppur cercando di contenere l’imprevedibilità di questa condizione. Lo svantaggio ci ha portato a essere creative. A inventarci un nuovo schema dove il centro-boa fintava di ritornare quando in realtà non rientrava affatto. Tutte le altre recitavamo la scena di essere in affanno mentre era già tutto premeditato, studiato a tavolino nei minimi particolari il cosa volevamo che accadesse. In quel momento le avversarie pensano di essere in vantaggio. In realtà noi creavamo una difesa tale da lasciare libera al tiro la peggiore della loro squadra. Per il portiere comportava quindi una riduzione del rischio. Per questo dico che l’imprevedibilità era controllata. Anche perché noi comunque pressavamo la giocatrice cercando di metterla in difficoltà il più possibile.
Se tutto fosse andato bene secondo questi piani, il portiere parava il tiro e rilanciava subito la palla in avanti per il contropiede dove Giusi, piena di energia, era già avanti pronta a ripartire per segnare il goal.
In questa strategia la chiave principale è stata l’accettazione seguito da un approccio al problema senza essere concentrato su di lui in quanto tale, bensì spostando l’attenzione sulle soluzioni per l’appunto creative. Inaspettate per la squadra avversaria. “In pratica io accetto di subire il contropiede: è vero che tu avversario hai un vantaggio. Io però nel frattempo ti riduco i gradi di libertà che tu pensi di avere.”
Restare sull’errore in modo non costruttivo si sprecano solo energie preziose».
EPILOGO:NUOVE COMPETENZE
Penso sempre che le aziende dovrebbero assumere più atleti. Titolati oppure no, non importa. Una persona che ha praticato sport ad alto livello ha acquisito durante la carriera competenze strettamente collegate al mondo lavorativo. Affronta le situazioni, gli ostacoli e le difficoltà esattamente come quando era in gara. Inoltre sono abituati alla pressione dei risultati e alla tensione. Alle volte non si è subito consapevoli di questi meccanismi inconsci così radicati pronti a intervenire in caso di necessità.
Prendendo l’esempio del capitano del Setterosa riguardo all’abilità di trasformare un evento negativo osservandolo da un altro punto di vista, si tratta di una vera e propria competenza allo stesso modo indispensabile per il risultato finale. Un collaboratore o un manager specializzato nella tecnica che si concentra solo sugli aspetti negativi del lavoro senza trasformarli in opportunità, dovrebbe valutare la possibilità di allenarsi a cambiare atteggiamento.
Ricollegandomi allo spunto iniziale tratto dall’articolo pubblicato dal Sole 24 ore, oggi non è più pensabile soffermarsi solo sulle competenze tecniche. Se queste non sono validamente supportate da altre come quelle appena descritte, difficilmente si possono raggiungere mete di rilievo.
Dalle statistiche apprese durante un workshop si evince
che le aziende con risultati eccellenti hanno investito sulle proprie persone.
Sulle relazioni. Sull’ambiente. Sull’equilibrio socio-famigliare.
Tutti dettagli inclusi nella performance. Soprattutto nei team aziendali e nelle società sportive occorre sviluppare un senso di appartenenza, elemento fondamentale per ogni risultato di successo.
Dietro questo ciclo vincente del Setterosa ci sarebbe veramente tanto da dire utile per l’aziende che vogliono replicarne il successo dal punto di vista dell’atteggiamento. Di certo già questi spunti di riflessione possono essere un punto di partenza per attivare un cambiamento.
Ringrazio di cuore l’olimpionica Lilli Allucci per la disponibilità nel condividere la sua preziosa esperienza.
Ringrazio te lettore per essere giunto fino in fondo all’articolo. Anche questo è un allenamento… mentale 🙂
Grazie
Aurora
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
(Foto Atene 2004 di Claudio Scaccini. Altre immagini google.)
Leave a Reply